Una storia tra moda, arte e diritto. Intervista alla figlia dello stilista Eugenio Carbone

Nelle aule di sartoria della Roma degli anni Sessanta il tempo sembrava scorrere al ritmo delle forbici che tagliavano i tessuti e del gesso che tracciava linee precise su tele grezze. Le giovani allieve imparavano un mestiere che era insieme arte e disciplina: l’abito non era ancora un prodotto di consumo, ma una scultura viva, che prendeva forma sul corpo. In quell’atmosfera densa di sogni e sacrifici, apparve un uomo silenzioso e visionario: Eugenio Carbone, nato in Calabria ma formatosi a Roma, crocevia di sartorie, atelier e set cinematografici che in quegli anni vestivano la Dolce Vita. Carbone non si accontentava di vestire le dive (anche se ci riuscì magnificamente, firmando abiti per Mina a Studio Uno e per attrici come Rosanna Schiaffino e Katyna Ranieri). In lui ardeva l’idea che la moda fosse anche metodo, ricerca, innovazione.

 Anche in casa, il lavoro e la ricerca non si arrestavano mai. La figlia lo ricorda così: «Il lavoro e la ricerca erano molto più di un mestiere: erano il suo modo di affrontare la vita. Non l’ho mai visto fermo. Il suo studio era un luogo vivo, dove schizzava idee e migliorava senza sosta. Anche durante una passeggiata aveva sempre con sé matita, blocco e acquerelli: camminare con lui significava fermarsi di continuo, perché ogni scorcio poteva diventare un disegno, un’idea di abito».

È per questo che inventò un mini-manichino didattico: un oggetto tanto semplice quanto rivoluzionario, pensato per insegnare la progettazione direttamente sul corpo tridimensionale, con la stessa libertà creativa dello stilista e la stessa precisione del modellista. Non si limitò a usarlo: lo brevettò. Quel gesto, quasi invisibile agli occhi dei più, è in realtà una chiave per comprendere il legame profondo tra moda e diritto. Prima ancora che qualcuno parlasse di fashion law, Carbone aveva intuito che la creatività, per vivere e crescere, ha bisogno di essere protetta e valorizzata. La figlia ne ricorda bene l’origine: «Quella che può sembrare una semplice invenzione nasceva da una necessità profondamente pratica e umana: insegnare non solo a replicare forme, ma a comprendere il corpo e la funzione dell’abito come una seconda pelle. Pensava sempre ai sacrifici delle famiglie e voleva che ogni allievo avesse uno strumento che semplificasse il lavoro, facendo risparmiare tempo e materiali. Brevettarlo fu un atto di tutela, certo, ma prima di tutto un segno di orgoglio e di convinzione nel valore di ciò che stava offrendo al mondo della moda e dell’educazione».

Roma, in quegli anni, era un teatro straordinario. Le sartorie dialogavano con Cinecittà, e gli atelier prestavano i loro abiti alle attrici che incarnavano la bellezza italiana nel mondo. Non esisteva ancora il “sistema moda” come lo intendiamo oggi, ma nelle strade, nei palazzi che ospitavano le maison, nelle aule delle scuole di taglio e cucito, si respirava una febbre creativa che sembrava inesauribile. Eugenio Carbone si muoveva in questo scenario con discrezione e fermezza. Nei suoi abiti c’era la grazia delle dive, ma anche la logica geometrica di chi sapeva che un vestito non nasce solo da un disegno, bensì dal dialogo tra stilista e modellista, tra immaginazione e tecnica. Per questo il suo lavoro non si limitava alla passerella: voleva dare forma a un metodo, a una grammatica comune. E nelle scuole, la sua presenza trasformava le aule in laboratori di invenzione: «Era capace di catalizzare l’attenzione degli allievi sulle sue mani - ricorda la figlia - che da un semplice ritaglio di carta sapevano dar vita, in un attimo, a un modello sul manichino. Era un docente amato, e le lettere che conservo lo raccontano come un maestro che non solo insegnava un mestiere, ma apriva prospettive di vita». 

Il mini-manichino brevettato, risultato di anni di tentativi e di decine di prototipi, era la sintesi perfetta di questa visione. Bastava osservarlo per capire che la moda di allora non era solo ornamento, ma anche scienza del corpo, calcolo delle proporzioni, ricerca di equilibrio. E il fatto stesso che Carbone avesse scelto di tutelarlo legalmente mostra quanto la moda fosse già allora industria che produceva conoscenza, oggetti, strumenti degni di protezione. «Lo fece anche per i nipoti» aggiunge la figlia, «perché restasse qualcosa di tangibile della sua dedizione».

Il diritto della moda non esisteva ancora come disciplina: non c’erano cattedre universitarie né riviste specialistiche. Eppure, i protagonisti di quella stagione lo praticavano inconsapevolmente ogni giorno. Ogni volta che registravano un marchio, depositavano un disegno, firmavano un contratto con una maison, stipulavano accordi, stavano gettando le basi di un settore giuridico che sarebbe stato nominato solo decenni più tardi. Carbone, con il suo brevetto, ne è uno degli esempi più chiari: la moda aveva bisogno del diritto. Non a caso, nel 2012 fu registrato anche il marchio, ulteriore segno della rilevanza giuridica e culturale della sua eredità.

 Intorno a lui, la vita scorreva veloce e le lezioni erano animate dalle giovani allieve che stringevano tra le mani quel piccolo manichino come fosse una chiave d’accesso a un sapere antico e nuovo allo stesso tempo. Chi lo ha visto lavorare ricorda un uomo che trattava la stoffa come fosse pelle viva, che aveva rispetto per il mestiere del modellista e insieme l’ardire dello stilista. Nei suoi gesti si avvertiva la convinzione che la moda fosse una forma di educazione alla bellezza, e che ogni innovazione tecnica andasse trasmessa, documentata, insegnata.

La sua idea di moda era un equilibrio delicato: «un incontro armonico tra arte e mestiere, con un piede nel mondo dell’industria» racconta la figlia. Una visione che trovava eco anche nei suoi quadri, popolati di cappelli, strumenti sartoriali e scene d’atelier, dove la pittura e la moda si specchiavano l’una nell’altra.

Oggi quelle regole hanno un nome, un corpo giuridico, una voce internazionale. Eppure, il cuore resta lo stesso: la moda è un linguaggio fragile e potente, che vive solo se custodito. «Papà diceva che la fantasia e la creatività lo avevano aiutato a trasformare il dolore in bellezza» ricorda la figlia. In questa frase si concentra la sua eredità più intima.

Così, tra il ricordo di una figlia e la memoria di un brevetto, la sua storia ci accompagna ancora. E quel piccolo manichino, nato in un’aula di Roma, resta oggi un simbolo: non solo di un’epoca irripetibile, ma del dialogo senza tempo tra creatività e diritto, tra la moda che sogna e il mondo che la protegge.

Stefania Gallo

Stefania Gallo Fashion Law Italia

https://www.fashionlawitalia.com
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